Un mondo perduto
*
Lungo la riva di un torrente di montagna
cammina un distinto signore che indossa un vestito
candido come la neve e lucidissimi stivaletti di
vernice. Il torrente è tortuoso, sulla riva incombono
precipizi che rendono difficile il cammino. Sembrerebbe
più facile camminare nell’acqua, ma il gentiluomo si
preoccupa degli stivaletti e dei pantaloni. Si contorce
come un bruco infilzato da uno spillo, si piega in due,
spicca salti degni di un campione olimpico, ma non entra
nell’acqua. Una vera impresa. E adesso modifichiamo un
solo particolare della sceneggiatura. Immaginiamoci il
nostro protagonista con un vestito sporco e bagnato, con
le toppe sulle ginocchia. Verrebbe spontaneo gridargli:
“Smettila, scemo! Entra in acqua! Non hai più niente da
perdere!”.
Così, più o
meno, appaiono all’osservatore esterno le interminabili
manovre dell’Israele ufficiale che si sforza, con
l’aiuto di incredibili acrobazie, di mantenere i
palestinesi sotto il proprio dominio, fingendo nello
stesso tempo che non esistano. Nei territori occupati
nel 1967 sono stati tracciati centinaia di chilometri di
strade che collegano tra loro minuscoli insediamenti
ebraici aggirando i villaggi palestinesi. Serpeggiano
per i deserti, si inoltrano in valli strette, si
inerpicano sui monti, circondano piccole fattorie e
grandi città, come se si volesse evitare
all’automobilista di scorgere un
goy
(1) sul proprio cammino. Il fatto è che il goy è segno
di sventura. Ora l’ingegno brillante del nuovo primo
ministro Ehud Barak prepara un viadotto lungo molti
chilometri, destinato ad unire alcuni isolotti
dell’autonomia e, nello stesso tempo, a mantenere i
territori sotto controllo ebraico. Le trattative di pace
sono naufragate ai tempi di Netanyahu, perché non si è
riusciti a risolvere il problema di andare da un
insediamento all’altro senza incontrare gli odiati
goy.
Agli occhi di
un osservatore ragionevole l’intera problematica dei
territori israelo-palestinesi, delle trattative e della
pace non vale un fico secco. Le spetta un posto di
diritto sulle barzellette sui matti: “Sentiamo un po’,
paziente Rabinovic, se aprite la porta e vedete dei
goy?”
“Quelli mi ammazzano, sta scritto nel Talmud”.
Eccovi
qualche domanda per buona misura. Quanti sono gli
abitanti di Israele? Sei milioni, di cui l’80% ebrei? No
caro lettore. In Israele vivono più di nove milioni di
persone, di cui gli ebrei sono poco più della metà. Ma
agli ebrei questo risultato non va bene. Noi vogliamo
l’80% di ebrei. Per questo non calcoliamo tre milioni di
goy,
e otteniamo il risultato voluto: abbiamo un paese
ebraico. Si potrebbe col medesimo successo trovare come
risultato un paese ebraico in qualunque altro posto:
basta non contare i goy.
Questi tre
milioni di goy
vivono in Israele, fianco a fianco con gli ebrei che
rientrano nel conto. Loro invece non entrano nel conto,
e basta. In qualche modo si riesce a non contarli: per
questo abbiamo una democrazia ebraica.
Un momento,
direte voi: hanno l’autonomia. Lo sappiamo cos’è
l’autonomia, c’è stata la Circoscrizione autonoma degli
ebrei del Birobidjan, quel pezzetto di Siberia orientale
dove Stalin voleva concentrare gli ebrei dell’URSS, e
decine di altre autonomie. Ma lo sapete che gli abitanti
di questa autonomia non hanno diritto di voto? Che non
hanno diritto di uscire dalla propria “autonomia”? Una
condizione simile non l’hanno subita né gli albanesi nel
Kosovo autonomo, né gli armeni nel Karabakh autonomo. I
palestinesi possono soltanto sognare, e invidiare gli
uni e gli altri. Un’autonomia del genere di quella di
cui godono i palestinesi, di solito, non è diversa dalla
“Zona di residenza” in cui lo zar rinchiudeva gli ebrei
nella Russia prerivoluzionaria. Ma a favore dei
palestinesi la Nato non interviene. Il problema di
profughi palestinesi esiste da cinquant’anni, ma nessuno
pensa di farli tornare a casa. A Clinton è costato caro,
e non a caso, dichiarare che i palestinesi possono
vivere dove vogliono: subito gli è saltata addosso la
lobby
ebraica, e non ha mollato la presa fino a quando il
presidente non ha sconfessato le proprie parole. Credo
bene! In questo campo i cattivi non erano i serbi ma gli
ebrei.
E adesso
un’altra domanda: di quali diritti gode l’autonomia
palestinese? Hanno un solo diritto, che in realtà è un
obbligo: eseguire gli ordini del governo ebraico, e
mantenere l’ordine. Quali sono invece i diritti che non
hanno? Le autorità dell’autonomia non possono nemmeno
scavare un pozzo senza l’autorizzazione dei dirigenti
ebraici competenti. Non possono importare né esportare
alcunché senza assenso delle autorità ebraiche. Devono
comprare merci israeliane a prezzi israeliani. Hanno
diritto – come premio – di sgobbare per quattro soldi
nelle fattorie e nelle fabbriche israeliane, molte delle
quali si trovano proprio nei cosiddetti territori
autonomi.
Vi rendete
conto di quanto tutto questo sia semplice e bello? Vi
costruite una fabbrica nei territori occupati, ci fate
lavorare dei palestinesi, ma nello stesso tempo la
fabbrica è extraterritoriale, e i palestinesi nono
figurano nemmeno negli elenchi della popolazione locale.
Si tratta, naturalmente, di un’antica astuzia ebraica.
“C’era una volta un rabbino che partì per Odessa di
venerdì. Il viaggio durò più del previsto, già
cominciava il sabato, ma il rabbino si mise a pregare, e
il Signore gli fece un miracolo: era sabato dappertutto
ma dove viaggiava il rabbino era ancora venerdì”.
Questa
parabola è risultata profetica. Ovunque si trovi un
ebreo, là c’è Israele, con i diritti civili, il salario
minimo, l’assistenza sociale; e dove lui non c’è, là c’è
la barbarie, il terzo mondo, la miseria, la tortura e la
fame. E così deve essere, secondo una logica da
manicomio. Per questo nell’insediamento ebraico di Eli,
tra due villaggi palestinesi a sud di Nablus, hanno
aperto qualche settimana fa una nuova piscina di misure
olimpioniche. Nello stesso tempo i
goy
dei due villaggi vicini sono senz’acqua: non ne hanno in
piscina, e non ne esce dal rubinetto. Ci sono villaggi
senz’acqua già da otto mesi. I contadini non hanno
soltanto perduto il raccolto, non si possono lavare da
settimane. L’acqua potabile se la vanno a prendere con
le taniche dio plastica. La mano sulla valvola di
distribuzione è una mano ebraica.
Oppure,
prendiamo il caso dei visti. Forse sapete che qualche
volta le autorità israeliane non consentono al signor
Tizio di recarsi nella patria storica del defunto nonno
ebreo o della sua cara defunta suocera. Ma sapete che
decine e centinaia di palestinesi non possono nemmeno
far visita a mogli e figli, perché abitano dalla parte
sbagliata del confine del ghetto, la cosiddetta Linea
Verde? Che i nonni non possono vedere i propri nipoti,
residenti a cinque chilometri di distanza, perché sono
divisi da un confine permeabile per gli ebrei, ma
impenetrabile per i goy?
Sapete che
centinaia di goy
sono stati, e sono ancora, rinchiusi per anni nelle
carceri israeliane senza giudizio e senza istruttoria,
senza accuse né avvocati? Che qualche giorno fa ne è
stato liberato uno dopo una detenzione di sei anni senza
processo e senza istruttoria? Che sono ancora in
prigione settanta persone destinate a restarci sino a
quando farà comodo al controspionaggio?
Quanto rumore
si è fatto in tutto il mondo per l’arresto di tredici
ebrei in Iran: Ma lo sapete che nelle carceri israeliane
languono ancora decine di libanesi rapiti, ai quali non
è stata mossa alcuna accusa? Furono rapiti quasi due
decenni fa, per costringere il Libano a trovare e
restituire i resti di un aviatore israeliano ucciso da
tempo, dopo essere stato abbattuto in un’incursione
contro obiettivi civili.
Lo sapete che
in Israele ogni giorno, ogni ora, si torturano uomini,
pardon goy?
Che le torture continuano per settimane e mesi, e non di
rado si concludono con la morte dei torturati? Lo sapete
che medici israeliani firmano tutti i verbali di tortura
e ne convalidano l’applicazione? Che i tribunali
israeliani non se ne occupano e non perseguono la
tortura dei detenuti?
Lo sapete che
centinaia di migliaia di palestinesi sono stati privati
dei loro averi, confiscati dalle autorità ebraiche nel
1948, nel 1967 e ancora oggi? Lo sapete che mentre si
discetta sull’oro ebraico nelle banche svizzere, le
autorità ebraiche continuano, giorno per giorno, a
confiscare i beni dei goy?
Lo sapete che
i cristiani di Betlemme non possono nemmeno andare a
pregare nel tempio della Resurrezione a Gerusalemme? Che
le donne russe sposate ai palestinesi di Betlemme non
sono riuscite per anni a ottenere dalle autorità
israeliane l’autorizzazione a fare il pellegrinaggio a
Gerusalemme? Che i musulmani di Ramallah non possono
visitare la moschea a loro sacra di al-Aqsa, a
Gerusalemme?
Lo sapete
che un ebreo riceve sette volte più acqua di un
goy?
Che nella Gerusalemme riunificata, dove tutte le entrate
sono frutto del lavoro dei goy,
tutte le uscite vanno unicamente a vantaggio degli
ebrei? Che i palestinesi non possono nemmeno andare a
farsi il bagno al mare?
Quando hanno
cominciato ad arrivare in Israele, i nuovi immigranti
paragonavano spesso il nostro paese con una delle calde
repubbliche centroasiatiche o transcaucasiche. Ma ci
facevano un complimento: noi viviamo in un mondo
perduto, in una remota riserva dimenticata dal tempo.
Dopo la democratizzazione del Sudafrica, Israele è
rimasta l’ultima nicchia nera sul mappamondo, l’ultimo
rifugio del razzismo e dell’apartheid.
Ogni volta
che passo un posto di blocco lungo la strada, ogni volta
che vengo perquisito all’ingresso di un grande
magazzino, ogni volta che mi interrogano all’aeroporto,
ho la sensazione di viaggiare su una macchina del tempo.
No, non conosco un altro paese come questo, anzi un
simile paese non esiste proprio.
Ce n’erano,
di paesi del genere. Il fatto è che lo Stato ebraico in
Palestina è nato verso la fine degli anni venti (anche
se ha ottenuto l’indipendenza formale soltanto nel
1948). Era il coetaneo di altre luminose formazioni del
suo tempo, e in primo luogo della Germania
nazionalsocialista. Molte notevoli realizzazioni di quei
tempi hanno trovato realizzazione qui da noi. Da loro si
confiscavano i beni degli ebrei, da noi quelli dei
goy.
Da loro si cacciavano gli ebrei, da noi i
goy.
Da loro si toglieva il lavoro agli ebrei, da noi non si
assumono i goy.
Oggi non ci sono goy
tra i giudici della Corte Suprema, non ci sono ministri
goy,
non ci sono goy
tra i dirigenti delle grandi società, nemmeno tra gli
ingegneri della società elettrica. Da loro si cucivano
sui vestiti le stelle gialle, da noi si indica la
classificazione “nazionalità” sul passaporto interno.
Invece di campi di concentramento noi abbiamo creato
campi profughi. Il nostro Shabak,
un tempo Shin Beth,
non si discosta molto dalla loro
Gestapo.
L’assassinio degli avversari politici, i rapimenti
all’estero, gli arresti e le perquisizioni notturne,
tutto questo è ancora in vigore da noi nei confronti dei
goy.
Ma il tempo
passa. Se la Germania non si fosse impelagata nella
guerra mondiale, sarebbe sopravvissuta anch’essa fino ai
nostri giorni, e probabilmente si sarebbe ammorbidita.
Il campo di Dachau sarebbe stato chiuso (e quello di
Auschwitz, generato dalla guerra, non sarebbe mai
esistito). Ci sarebbero andati in
tournée
i gruppi rock, la televisione trasmetterebbe film
americani. Avrebbero fatto la loro comparsa i
post-nazionalsocialisti. E così da noi. Viviamo nelle
condizioni di un nazionalsocialismo ammorbidito,
imputridito, decadente ma ancora vitale.
Si racconta
che Nazim Hilkmet (2), in punto di morte, abbia chiesto
gli portassero “un libro a lieto fine”. Io purtroppo non
prevedo nessun lieto fine. I partiti sionisti continuano
come prima a discutere tra di loro, se sia meglio
cacciare i palestinesi nel deserto o rinchiuderli in una
riserva. di parità dei diritti si parla soltanto tra gli
estremisti più radicali, collocati ben oltre i confini
della mappa politica d’Israele.
Nemmeno le
forze sioniste più progressiste – nel cui novero è
difficile collocare Barak – chiedono la fine dell’apartheid.
In generale, del resto, non è il caso di preoccuparsi
dei palestinesi. Una volta conclusa la “pace” resteranno
nella propria zona e continueranno, come prima, a
guardare attraverso il filo spinato le loro terre di un
tempo, un mare a loro vietato. Perfino il più notevole
piano di pace, quello del partito laburista, è a livello
dei bantustan sudafricani, le formazioni semi-autonome
dell’epoca dell’apartheid.
Ma la
comunità internazionale non si è lasciata ingannare dai
bantustan, e ha continuato ad esigere l’attuazione di un
semplice principio, la parità dei diritti: “Un uomo, un
voto”. E’ per questo che, col tempo, in Sudafrica è
sorta – no , non un utopia, ma uno Stato normale con i
suoi normali difetti.
Contro i
razzisti boeri hanno combattuto i bravi soldati cubani,
che hanno sconfitto le loro unità corazzate nei deserti
della Namibia. Contro di noi ci sono soltanto miti
contadini palestinesi muniti di ciottoli al posto delle
armi. I boeri non avevano alleati importanti. Israele ha
un super-alleato, l’ebraismo mondiale. Noi gli siamo
indispensabili per avere un posto in cui scappare, siamo
indispensabili a tutti quei Maxwell, Berezovsky (3) e
Lerner (4) con i loro milioni rubati. E’ per questo che
ogni giorno spillano quattrini ai russi, agli americani,
agli inglesi, e ci sovvenzionano.
Riceviamo
miliardi di dollari sottratti ai pensionati di Mosca e
ai senzatetto di New York, e li spendiamo per una
miriade di militari, per le armi più moderne, per
strumenti di tortura e pallottole destinate ai bambini
palestinesi. Rimane qualcosa anche per campare,
altrimenti saremmo già da un bel pezzo nei guai. E così
siamo rimasti incagliati in un’ansa dimenticata dalla
storia.
La stampa
mondiale è in mano al nostro super-alleato. Qualunque
cosa facciamo – fosse pure uno stufato di palestinesi –
The New York Times
ci discolpa e la NTV (5) pure. Qualsiasi osservazione
critica viene attribuita ad antisemitismo. In altre
parole, non esiste un fattore esterno in grado di
influire sulla nostra situazione, se escludiamo un
diretto intervento di Domineddio, che potrebbe finire
col disgustarsi di noi, oppure un colpo diretto, inferto
da un razzo iraniano/iracheno/russo munito di testata
nucleare. Possiamo forse pensare che il popolo americano
si stancherà di spender soldi per i nostri gas
lacrimogeni?
Ma la pace,
una pace normale, una vita normale, in Israele non c’è e
non ci sarà. I posti di blocco, l’esercito, lo
Shabak
– tutto questo sarà sempre con noi, fino alla fine.
Esiste una via d’uscita? Si, ma è fantascientifica: dare
ai goy
la parità di diritti. Dar loro il diritto di voto,
esattamente come agli ebrei. Dar loro la libertà di
movimento, esattamente come agli ebrei. Dargli il
diritto di proprietà, esattamente come agli ebrei. In
fin dei conti, una volta i goy
hanno dato la parità di diritti agli ebrei, purtroppo
per loro.
E allora i
problemi scompariranno. Non ci sarà bisogno di
tangenziali strategiche. Un ebreo vuole abitare a
Hebron? Prego. Un palestinese vuole vivere a Tel Aviv?
S’accomodi. E l’esercito? In comune. Un solo parlamento,
un solo paese. Se vuoi, rivolgi le tue preghiere a Gesù.
Se preferisci a Geova, oppure ad Allah; e se vuoi,
semplicemente non preghi. Non saremo in paradiso, ma si
vivrà meglio.
L’occasione
di ottenere tutto questo ci è stata offerta. Nel quadro
della cosiddetta aliya
dalla Comunità di Stati Indipendenti – l’ondata di
immigrazione proveniente dall’ex –URSS – sono diventati
cittadini israeliani centinaia di migliaia di cittadini
ex-sovietici il cui legame con il giudaismo è piuttosto
tenue. Non è un segreto e nemmeno un errore. Questa
gente è stata importata con la benedizione del
Netiv,
sezione speciale ed ideologicamente ineccepibile del
controspionaggio israeliano, autorizzata dai massimi
livelli. Le autorità israeliane hanno seguito il cammino
tracciato a suo tempo dai babilonesi e dagli assiri:
l’espulsione della popolazione locale e l’importazione
di coloni privi di legami ed ambizioni locali, fedeli
volenti o nolenti alle autorità. Per questo sono stati
trapiantati in Israele migliaia di ucraini, russi,
tailandesi, romeni e cinesi.
Il fatto è
che gli ashkenaziti (6) purosangue – i discendenti dei
primi colonizzatori – accettano di lavorare soltanto
come dirigenti, o nel settore della difesa e della
sicurezza. E’ difficile far funzionare un paese fatto
soltanto di avvocati, ufficiali della sicurezza,
specialisti della pubblicità. Per questo c’è stato
bisogno di nuovi immigranti. Col tempo capiranno, se non
l’hanno già capito, che per loro e per i loro figli, la
strada verso l’alto è sbarrata. I figli di matrimoni
misti sono considerati dal diritto religioso ebraico
figli di prostitute, colpiti da innumerevoli
discriminazioni. Più precisamente, il diritto ebraico
non riconosce affatto il matrimonio con i
goy,
perché secondo il Talmud i goy
non hanno né matrimonio, né averi, né anima, come le
bestie.
In occasione
delle ultime elezioni la consapevolezza interiore di
questa circostanza ha indotto molti immigrati dalla
Russia a votare per i partiti anticlericali. Ma, per dir
la verità, i nostri hared
– gli “ortodossi”- sono per lo più un gruppo innocente
appartenente alla popolazione originaria. Questo relitto
del passato, rimasto ai margini dello sviluppo, si
sarebbe già ridotto ai minimi termini se non gli fossero
venute incontro le esigenze delle autorità sioniste, e
perciò se ne stanno per lunghi anni a studiare nelle
yeshivà
– le scuole religiose – per paura di essere chiamati a
fare il servizio militare. Lo Stato interviene tuttavia
per aiutare gli ortodossi e le loro famiglie numerose, e
in questo non c'è niente di male. Una sola missione di
uno dei nostri gloriosi aerei F-16 diretto in Libano con
il suo carico di bombe costa più di tutta l’assistenza
fornita alle madri senza marito e alle famiglie
numerose. Tutto il bilancio di Mea Shearim – il
quartiere degli ortodossi – pesa molto meno di una sola
tangenziale strategica tra due colonie dei territori
occupati.
Gli ebrei
religiosi non sionisti sono arrivati in Terrasanta prima
dei sionisti (tra loro c’era anche un antenato
dell’autore di questo articolo) e sono diventati
anch’essi vittime della concezione sionistica. E così le
loro case di Hebron e di Gerusalemme sono state
confiscate ed assegnate ai coloni sionisti. Meglio non
provocarli troppo, non costringerli a fare il servizio
militare, e lasciarli uscire un po’ dal ghetto quando
vogliono.
Per quanto
siano ripugnanti le leggende talmudiche – e sono
convinto che rientrino nella variante più nera del
clericalismo antiumanitario – credo che gli
hared
ortodossi abbiano diritto di vivere come vogliono a
Gerusalemme e Bnei Brak, così come vivono a Brooklyn,
Parigi o Kiev. Altra cosa è che il giudaismo debba
essere privato di ogni privilegio. Nello stesso modo
sarei pronto a sostenere il diritto degli ebrei a vivere
tra i palestinesi di Hebron come a Giaffa, Nablus, Ariel
fino all’ultimo paesino, ma senza privilegi, così come
vivono gli ebrei in mezzo a tutti i popoli del mondo, da
Mosca a New York fino a Damasco e al Cairo.
La
trasformazione della Palestina / Israele in un paese
normale è possibile. Bisogna smettersi di contorcersi e
aggrovigliarsi, bisogna entrare nell’acqua pura del
ruscello e passare dall’altra parte, sulla sponda
verdeggiante di una Palestina unita e indivisibile. Ma è
difficile che questo possa compiersi senza un altro
disastro militare.
Israel Shamir
·
Articolo scritto in
russo
Tratto dal libro di Israel Shamir
Carri armati e ulivi della Palestina. Il Fragore del
silenzio. Edizioni CRT, Pistoia 2002
Editrice CRT,
via San Pietro 36, 5100 Pistoia. Tel.: 0573 976124 –
Fax: 0573 366725
E-mail:
info@editricecrt.it In Internet:
www.editricecrt.it
(1)
Letteralmente significa “le nazioni”, ma indica
tutti i non ebrei.
(2)
Poeta turco nato ad Istanbul 1902 e morto a Mosca
nel 1963.
(3)
Boris Berezovsky, venditore di auto, riuscito poi
ad a impossessarsi dei beni dell’Aeroflot, nel 1996 si
vantò di essere uno dei sei uomini che controllavano la
metà dell’economia russa e di essere riuscito a far
eleggere Boris Yeltsin. Costretto a fuggire il paese da
Putin, egli ha recentemente contribuito 100.000 dollari
– tramite la sua Foundation for
Civil Liberties
– all’associazione assistenziale ebraica FEGS.
(4)
Gregory Lerner, mafioso russo attualmente
detenuto in Israele.
(5)
Canale TV privato russo.
(6)
Ebrei dell’Europa orientale.
Israel Shamir
è nato a Novosibirsk, Siberia, nel 1947. Espulso
dall’università per attività sovversiva nel 1969, emigrò
“per libera scelta” in Israele e combatté nella guerra
del 1973.Corrispondente in Vietnam, Cambogia, Laos e,
per molti anni, in Giappone tanto da diventare uno
studioso e traduttore della letteratura giapponese. Dal
1989 al 1993 è stato inviato di Ha’aretz in
Russia. Al suo ritorno in Israele si è impegnato nella
denuncia della politica sionista di apartheid e
del genocidio strisciante che, ormai, sembra stia per
raggiungere il suo obiettivo finale. Con una febbrile
attività letteraria e giornalistica sulla carta stampata
e su Internet (il sito
http://www.israelshamir.net), nei giri di conferenze
in Europa, in Egitto e negli Stati Uniti, Shamir
presenta una visione altra del conflitto
israelo-palestinese.
Rifiuta la soluzione dei “due stati per
due popoli” perché nelle presenti circostanze
paralizzante, distruttiva e senza sbocchi. E lo fa in
nome di una pace fondata su di un unico Stato, tra il
Giordano e il mare, con diritti uguali per tutti i suoi
abitanti, senza discriminazioni etniche o religiose. “Io
non sono un amico dei palestinesi, io sono palestinese”
dichiara Shamir, e lo fa in nome del ritorno dei
palestinesi, dal 1948 esiliati ed espropriati delle loro
terre e d’ogni diritto. Questo è reso impossibile dalla
folle politica che ha “importato” centinaia di migliaia
di rumeni, tailandesi, cinesi, africani e un milione di
russi e ucraini che formano la galassia di ghetti che è
oggi lo Stato d’Israele. Al contrario, i nativi
palestinesi sono stati via via assiepati in
steccati-carcere, sempre più ristretti, dipendenti,
vulnerabili. Il perfetto “modello coloniale” per tutto
il Terzo Mondo, ci ricorda Shamir: ville con piscina e
roccaforti dei dominatori sui luoghi alti e, in basso,
intersecati da autostrade, campi profughi per lavoratori
senza diritti e senza nessun controllo sulle proprie
vite e sulla propria morte. Tutto questo sotto la
vigilanza del terzo esercito più moderno del mondo.
All’apartheid politica, psicologica e
culturale dello Stato d’Israele, finanziata dagli
interessi statunitensi e dalla lobby ebraica (AIPAC)
autodefinitasi rappresentanti mondiali del popolo
ebraico, Shamir contrappone un atteggiamento di
resistenza che rivaluti la memoria storica non
unilaterale, i momenti più alti di tutte le esperienze
religiose, la coscienza di appartenere ad un’unica
umanità di cui occorre garantire il futuro. Per le
migliaia d’ulivi sradicati dai bulldozer, dice con
accenti spesso poetici Shamir, con il paesaggio della
Palestina trasformato in una qualsiasi squallida
periferia, tutta l’umanità è offesa e degradata.
Realizzare l’utopia non è più speranza, ma è rimasta
l’unica necessità. Nel maggio del 2002, il figlio di
Israel Shamir, che per via di madre ha la cittadinanza
svedese, ha partecipato all’incursione di un gruppo di
pacifisti che sono riusciti a penetrare nella Basilica
della Natività a Betlemme, portando cibo e medicine ai
palestinesi assediati. Il giovane è stato arrestato e
immediatamente deportato da Israele con diffida a
rientrarvi per i prossimi dieci anni.
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